mercoledì 28 settembre 2011

Cassandri e la storia d'Italia pre-leghista: quando Mazzini fece il Po simbolo d'unità

In mostra il documento con cui si dichiarava "fiume nazionale" nel 1849, oltre un secolo prima della Padania

CASERTA - Quarant’anni di attività in ambito farmaceutico come amministratore delegato di un’azienda di Milano e quarant’anni come collezionista di carta: storico appassionato, la doppia vita di Rocco Cassandri inizia dal francobollo, poi passa al documento viaggiato, dalle cartoline alle lettere, per approdare al documento storico e iconografico. Con una chicca, il decreto con cui il triumvirato della Repubblica romana con Giuseppe Mazzini elesse il Po a fiume simbolo dell'unità nazionale, oltre un secolo prima delle cerimonie leghiste al Monviso. Una ricerca continua che non lascia certo spazio alla noia, ma diventa un’attività corroborante. Il filatelico di origine ciociara ma romano di adozione, analizza e studia costantemente materiale storico, in particolare la storia dello Stato Pontificio e della Repubblica romana, una delle pagine più belle e più importanti del risorgimento italiano. Ecco spiegato l’invito alla conferenza tenuta a Sessa Aurunca il 17 settembre in occasione dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia e l’invito a tenere una mostra dei preziosissimi documenti in suo possesso. Solo pochi giorni a disposizione di un pubblico non solo locale, di questo patrimonio culturale, per poter toccare con mano la storia presso il castello ducale della città.

DOCUMENTI DI GARIBALDI, CAVOUR E MAZZINI - Quaranta i documenti esposti a Sessa Aurunca contro le decine di migliaia di pezzi che Rocco Cassandri ha raccolto, dal mercatino di Porta Portese o salvati dal macero o acquistati alle aste. Tre i percorsi previsti: lettere e documenti di personaggi politici come la lettera apostolica di Pio VI del 1820 contro la Carboneria, una lettera di Garibaldi da Caprera del 1868, una lettera di Mazzini, un Decreto di Cavour, una lettera di Nino Bixio; lettere di garibaldini impegnati a combattere sul nostro territorio che scrivono alla famiglia, come quella di Achille Geluardi uno dei Mille che usa carta intestata del precedente corpo dei Cacciatori delle Alpi; interessante la minuta di lettera del 1848 del sindaco di Bugnara che scrive all’intendente di Sulmona e descrive i rivoltosi locali con il tricolore che parlano degli avvenimenti al caffè, definendoli “loschi individui o i signori barbuti comunisti».

LA STORIA MISTIFICATA - Testimonianze che provano che la storia a volte viene mistificata; questi documenti rappresentano in modo esemplare tutti coloro che contribuirono con un coerente impegno, alla emancipazione sociale e civile del Risorgimento, alla realizzazione di un’Italia unita politicamente e salda nella costante ricerca di principi liberali. Un viaggio affascinante nella storia risorgimentale che culmina con l’esposizione di alcuni documenti che ruotano intorno alle vicende della Repubblica Romana del 1849, di questo particolare periodo storico postale, Cassandri dispone di una vasta raccolta di lettere e documenti, che spaziano dalle poste Repubblicane, sino a quelle degli eserciti chiamati a sopprimerla e a ripristinare il potere temporale dell’ultimo «Papa Re» Pio IX. Ad attirare la nostra attenzione è in particolare il manifesto firmato dal triumvirato della repubblica con il quale si dichiara il fiume Po, «fiume nazionale». Un eccezionale documento che proprio in questi giorni sembra rispondere a tono al rito dell’ampolla con le sacre acque del Po, che a Pian del Re nel Monviso, il Senatur ha celebrato insieme al figlio e alla Lega Nord.

IL PO E LA PREVEGGENZA DEI TRIUMVIRI - «Anche se il periodo di vigenza della neonata Repubblica è stato brevissimo, circa 5 mesi dal 9 febbraio al 4 luglio, tanti sono stati i cambiamenti messi in essere e che hanno modificato drasticamente la vita sociale nei territori delle 4 regioni pontificie (Lazio, Umbria, Marche e Romagna) che questa ha governato - ha spiegato l’esperto storico -. L’abolizione della pena di morte ed il suffragio universale, anche se esteso solo agli elettori maschi, sono alcuni degli esempi di quanta lungimiranza sussistesse nel governo della “cosa pubblica” da parte del triumvirato. In pochi mesi tutta l’amministrazione pubblica fu ristrutturata, si batté nuova moneta, si emisero obbligazioni ed addirittura ci si preoccupò di decretare che il fiume Po fosse dichiarato fiume nazionale. Probabilmente – conclude Cassandri - i triumviri hanno avuto un momento di preveggenza anche se mai avrebbero pensato che nel secolo successivo, qualcuno lo avrebbe scelto, in contrapposizione, come simbolo di secessione dell’Italia faticosamente unita».

Fernanda Esposito
Corriere del Mezzogiorno 19 settembre 2011

martedì 20 settembre 2011

XX settembre 1870

Il 20 settembre 1870 le truppe italiane entravano a Roma, riuscendo ad aprirsi una breccia a Porta Pia, sconfiggendo le truppe papaline.
La presa di Porta Pia rappresentò non solo l’annessione di Roma al giovane Regno d’Italia di cui divenne capitale, ma anche la caduta del Potere temporale della Chiesa. Infatti, venne sancita la separazione fra potere statale e potere temporale, concedendo al Papa solamente il governo della Città del Vaticano. 
Il XX settembre divenne festa nazionale italiana, una giornata nazionale della laicità dello Stato. Con il fascismo si eliminò la festa e dalla sua caduta non fu mai più ripristinata.
Purtroppo, oggi, la separazione fra Chiesa e Stato sancita nel Risorgimento è pressoché inesistente dopo la stipula del Concordato fra Mussolini e la Santa Sede nel 1929, inserito anche nella Costituzione repubblicana (Art. 7) nel 1947, ed il successivo Concordato, con il governo Craxi, stipulato fra Italia e Vaticano.

mercoledì 14 settembre 2011

Camilleri: ''Garibaldi come Che Guevara ma non commise il suo errore''

Lo scrittore in un'intervista a cura di Roberto Riccardi contenuta nel libro 'Camicie rosse, storie nere': ''Garibaldi sceglie perfettamente il teatro in cui operare, la Sicilia. L'isola era stata un continuo terremoto, dal 1848 in poi''
La spedizione dei Mille, "composta da gente di ogni parte della Penisola e anche da stranieri, è il gesto di guerra che ha dato concretamente inizio all'unità d'Italia. E' un viaggio molto bello, a pensarci bene, perché si tratta di 1.080 persone che s'imbarcano a Quarto su due navi, più o meno avventurosamente si riforniscono di carburante e di quello che serve, eludono la sorveglianza dei militari e arrivano a Marsala. Nella durata di un viaggio, in cui si parla poco l'italiano e molto il dialetto, questa gente eterogenea e raccogliticcia, animata però di uno spirito comune, diventa un esercito". A raccontare l'impresa di Garibaldi è Andrea Camilleri, in un'intervista a cura di Roberto Riccardi contenuta nel libro 'Camicie rosse, storie nere', edito da Hobby Work.
Garibaldi? "Guardando alla mitologia odierna si potrebbe considerarlo una sorta di Che Guevara, che però non commette il suo errore, cioè andare dove non c'è un terreno fertile. Garibaldi sceglie perfettamente il teatro in cui operare, la Sicilia. L'isola - racconta - era stata un continuo terremoto, dal 1848 in poi. Anche perché il regno borbonico si era preoccupato di regnare, ma non di avere dei cittadini borbonici, di trovare un'unità al suo interno, per esempio tra napoletani e siciliani. In Sicilia, anche per questo motivo, le spinte separatiste rimasero vivissime. Vi attecchirono in parallelo le idee liberali, che erano molto combattute a Napoli, dove si avvertiva la diretta pressione dei Borbone, mentre a Palermo non era così. Il capoluogo isolano aveva avuto addirittura un suo Senato, una forma d'indipendenza con Ruggero Settimo, e quindi il terreno era ottimo per una rivolta".


'Camicie Rosse, Storie Nere' raccoglie gli interventi di tredici giallisti italiani che, tra fiction letteraria e verosimiglianza storica, ripercorrono le vicende dei garibaldini.

"La cosa più bella della Storia - fa notare Camilleri - è che in essa tutto è necessario. La necessità di un fatto, però, non la avverti sul momento. Te ne accorgi dopo che era tassativo che un certo episodio si verificasse. Ma sulla necessità storica dell'Unità d'Italia, assoluta, ineludibile, non ci piove. All'interno dei grandi movimenti storici del tempo, tutto ciò che è stato si rivela necessario, a posteriori. I latini dicevano: post hoc, propter hoc''. ''Ora però proporrei una spedizione a rovescio. Partire da Marsala e sbarcare nel Bergamasco o nel Bresciano, dove di garibaldini ce ne furono tanti. Così facciamo una volta per uno". Certo in Lombardia, fa notare Riccardi allo scrittore, il mare non arriva. "E sennò' - replica Camilleri - che impresa sarebbe?"

(FONTE: www.adnkrono.com)

venerdì 2 settembre 2011

Non studiate!

CARI RAGAZZI, cari giovani: non studiate! Soprattutto, non nella scuola pubblica. Ve lo dice uno che ha sempre studiato e studia da sempre. Che senza studiare non saprebbe che fare. Che a scuola si sente a casa propria.

Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? Difficile.

Qualsiasi libero professionista, commerciante, artigiano, non dico imprenditore, guadagna più di loro. E poi vi pare che godano di considerazione sociale? I ministri li definiscono fannulloni. Il governo una categoria da “tagliare”. Ed effettivamente “tagliata”, dal punto di vista degli organici, degli stipendi, dei fondi per l’attività ordinaria e per la ricerca.

E, poi, che cosa hanno da insegnare ancora? Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. A proposito dei quali, voi, ragazzi, ne sapete molto più di loro. Perché voi siete, in larga parte e in larga misura, “nativi digitali”, mentre loro (noi), gli insegnanti, i professori, di “digitali”, spesso, hanno solo le impronte. E poi quanti di voi e dei vostri genitori ne accettano i giudizi? Quanti di voi e dei vostri genitori, quando si tratta di giudizi – e di voti – negativi, non li considerano pre-giudizi, viziati da malanimo?

Per cui, cari ragazzi, non studiate! Non andate a scuola. In quella pubblica almeno. Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato. Sul Pubblico. Sui privilegi della Casta. (Cioè: degli altri). L’Istruzione, la Cultura, a questo fine, non servono.

Non studiate, ragazzi. Non andate a scuola. Tanto meno in quella pubblica. Anni buttati. Non vi serviranno neppure a maturare anzianità di servizio, in vista della pensione. Che, d’altronde, non riuscirete mai ad avere. Perché la vostra generazione è destinata a un presente lavorativo incerto e a un futuro certamente senza pensione. Gli anni passati a studiare all’università. Scordateveli. Non riuscirete a utilizzarli per la vostra anzianità. Il governo li considera, comunque, “inutili”. Tanto più come incentivo. A studiare.

Per cui, cari ragazzi, non studiate. Se necessario, fingete, visto che, comunque, è meglio studiare che andare a lavorare, quando il lavoro non c’è. E se c’è, è intermittente, temporaneo. Precario. Ma, se potete, guardate i maestri e i professori con indulgenza. Sono una categoria residua (e “protetta”). Una specie in via d’estinzione, mal sopportata. Sopravvissuta a un’era ormai passata. Quando la scuola e la cultura servivano. Erano fattori di prestigio.

Oggi non è più così. I Professori: verranno aboliti per legge, insieme alla Scuola. D’altronde, studiare non serve. E la cultura vi creerà più guai che vantaggi. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Ma oggi non conviene. Si tratta di vizi insopportabili. Cari ragazzi, ascoltatemi: meglio furbi che colti!

Ilvo Diamanti
La Repubblica 1 settembre 2011

giovedì 1 settembre 2011

Rocco e i suoi fratelli di carta

E chi l’avrebbe detto che anche a quest’età può succederti di fare l’autostop? Invece succede, soprattutto se devi arrivare in tempo a prendere un treno a Torino e sei in un paesino delle Alpi di trecento abitanti. Non si accetteranno caramelle dagli sconosciuti, ma lo sconosciuto è gentile e si è reso disponibile appena ha saputo del bisogno, “tanto anch’io devo andare a Torino”. Ha il viso simpatico, un accento da meridionale arrivato al nord da qualche decennio, una Citroën diesel con l’aria veterana. E deve essere un buon lettore: ha un po’ di giornali sul sedile e prima di partire passa per uno di quei crocicchi dove si prendono e si lasciano libri gratis, uno scambio anonimo tra viandanti colti. Si chiama Rocco, Rocco Pinto. E il nome aumenta la simpatia. Profuma di antico, nella vertigine odierna di Lorenzi, Jacopi e Luchi.

“Rocco e i suoi fratelli” vien da interloquire senza troppa fantasia. “L’ha detto, io sono proprio Rocco e i suoi fratelli!”. Sorride guidando. “Metta Torino al posto di Milano ed è fatta. Sono lucano anch’io, sono nato a Rapone, in provincia di Potenza ai confini con l’Irpinia, nel 1959. Mio padre faceva il calzolaio ed era pure bravo, avevamo una piccola trattoria. Mio fratello più grande venne mandato a studiare a Torino, dove c’erano degli zii che lavoravano in cantiere: a quindici anni faceva il falegname apprendista di giorno e la scuola tecnica alla sera, all’Avogadro. Poi arrivammo noi, tutti gli altri. Mio padre, mia madre, io, mia sorella, e altri due fratelli. Andammo a dormire in una soffitta in via Mercanti, due stanze per otto persone perché c’era anche mia nonna. Mio padre andò in cantiere pure lui. Lavorava la pietra: due martelli, una cazzuola e un secchio. Io andai in quinta elementare e scoprii che quasi tutti i miei compagni erano meridionali, una autentica babele di dialetti. Ma la sto annoiando?”.

Per carità. Lo sconosciuto gentile sembra spuntato dal nulla in questo 150esimo anniversario di unità d’Italia per raccontare un pezzo di storia vera, mica le bubbole della Padania o la retorica del Belpaese. “Le medie le feci al Baretti. E lì incominciò la mia nuova vita. Prima di tutto mi innamorai del Toro, ed era una rarità perché i figli degli immigrati diventavano juventini. Poi incominciai a pormi qualche domanda. Lei pensi che al mio paese c’erano sì e no mille abitanti. E che mi trovai in una città smisurata, dove c’erano manifestazioni smisurate, gente che urlava, sassaiole, e quei grandi cartelli con su scritto ‘Agnelli e Pirelli ladri gemelli’ e io non capivo. Poi qualcosa mi veniva detto dai miei fratelli più grandi, oppure a scuola. Fu lì che trovai un professore di italiano che mi fece innamorare dei libri e della lettura”.

Ci siamo, pensi, ora mi dice che mestiere fa. “A casa mia non leggeva nessuno. Io sbagliavo gli accenti e le acca e me lo sarei portato dietro per un bel po’ questo difetto, perché non c’è niente di peggio che una scuola elementare fatta male. Lavoravamo tutti. Un altro mio fratello aveva smesso presto di studiare e faceva il garzone in un bar. Io e l’altro mio fratello andavamo anche noi in cantiere per arrotondare d’estate. No, non abbiamo fatto la fame, perché tutti i maschi portavano soldi a casa e poi lì c’era mia madre, una donna straordinaria, che teneva insieme tutto. Il problema era integrarsi, semmai”.

“Poi feci lo scientifico, e capii sempre di più quel che stava accadendo a Torino. E andai a fare il servizio militare. Accompagnavo un non vedente, un funzionario del Pci, e allora gli leggevo tanti libri ad alta voce, vede come si coltivano le passioni? A volte è il caso. Trovai il mio primo lavoro in università, a Palazzo Nuovo. Un sogno: in libreria, Celid si chiamava, Cooperativa editrice libraria di informazione democratica, era nata dalla contestazione. Feci il fattorino, poi il magazziniere, infine il commesso dietro il bancone. Mi laureai in lettere. La tesi? La feci sulle letture del libraio”.

In certi momenti non si ha voglia di fare domande, l’interlocutore dice comunque cose più interessanti di quelle che gli chiederesti. “Be’, sì, di libri un po’ mi intendo. L’ha mai letto Salvatore Satta? No? Guardi tenga qui ‘Il giorno del giudizio’, è uno dei capolavori del novecento italiano. Glielo regalo. No, lo tenga. Leggo di tutto, anche se sono esigente: Parise, la Morante… Una volta mi appassionavo alle cronache politiche, ne discutevo con gli amici, ora non ci riesco più. Mi sento disarmato. D’altronde che dovremmo aspettarci quando metà della popolazione non legge neanche un libro all’anno, e questa è la media perché il Sud è uno sfacelo? Il mio sogno è di diventare come il mio professore delle medie e diffondere cultura. Pensi che alcuni anni fa andammo con degli scrittori e Goletta verde per un intero maggio in giro per la Calabria a promuovere la lettura. Ora sto preparando un forum a Matera, con Giuseppe Laterza, Antonio Sellerio, Carla Ida Salviati, per una legge di iniziativa popolare su libri e lettura. Sarà a ottobre. Glielo confesso, ho spinto io per farlo a Matera, è la mia terra”.

La stazione di Porta Nuova è arrivata. “Che mestiere faccio? Dirigo la libreria ‘La torre di Abele’ qui a Torino”. C’era da giurarci. Ma questa è la storia di un’Italia, ancora in mezzo a noi, che andava raccontata. Di quando i figli dei calzolai diventavano intellettuali e ogni figlio portava i soldi a casa. E i Rocco, i Giuseppe e i Salvatore rinsanguavano il Nord facendone, da una soffitta, una delle terre più benestanti e progredite al mondo.

Nando dalla Chiesa

La prova del tifone

Hanno la memoria corta, coloro che guardando fuori dalla finestra, e vedendo i tempi come son brutti, concludono che non è sotto cieli sì rabbuiati che si può fare dell´Europa una grande potenza.Una grande potenza decisa a non farsi abbattere dalle raffiche dei mercati e da quel che le raffiche dicono: la crisi di un mondo, non del mondo; la nascita di un universo multipolare, non più egemonizzato da America e Occidente. L´idea dell´unificazione europea non nacque nei sogni di uomini che se ne stavano sdraiati su verdi prati, ma nella tormenta e nella guerra, quando le forze dei nazionalismi e delle dittature mietevano morte.
Lo sanno gli italiani, che da quelle guerre uscirono più saggi perché vinti. Lo sanno soprattutto i tedeschi, per i quali l´Europa fu redenzione democratica. Sembrano averlo dimenticato, ma se negli Anni ´30 la crisi li spezzò, anche spiritualmente, fu perché la Germania era stata trattata, dopo il 14-18, come uno Stato da vessare, da punire economicamente. I suoi creditori furono esosi e sterminatamente vacui, le riparazioni imposte al vinto divennero un cappio insostenibile. I disoccupati, alla fine del ´31, erano 6 milioni. Mancò nei vincitori la saggezza della solidarietà e fu catastrofe, per i tedeschi e per l´Europa.
I moderni euroscettici non sanno la storia che fanno e che ripetono, intontiti. Anche, quando commentano tristemente che mancano stavolta i grandi uomini, che il vento della crisi è troppo forte per prendere decisioni, che la decadenza essendo alle porte non resta che intirizzire e rimpicciolirsi, non sanno quel che dicono. È vero, mancano i grandi, la bufera travolge e sparpaglia gli uomini: che altro fare, se non pregare? È quel che fanno i politici: invece di agire, predicano. Viene in mente il Tifone di Joseph Conrad: «È questa la forza disgregatrice di un gran vento: isola l´uomo dai propri simili».
Quel breve romanzo di Conrad vale la pena rimeditarlo, perché in esso oggi ci rispecchiamo e perché nostra è la domanda che assilla il protagonista, il capitano MacWhirr. Il suo vice, Jukes, gli fa capire a un certo punto che l´immane tempesta forse la potrebbe schivare, deviando dalla rotta stabilita. Perché MacWhirr non segue questo consiglio in apparenza prudente, di buon senso? Perché si getta a capofitto nel tifone quando potrebbe aggirarlo? MacWhirr ha qualcosa di ottuso, cocciuto, non immaginativo, lo sguardo perso nel vuoto. Quel che dice a se stesso, provo a riassumerlo in un monologo immaginario: «Cosa dirò, quando arriverò al porto con due giorni di ritardo avendo allungato il percorso pur di scansare la tormenta? Non potrò giustificarmi evocandola, perché neppure l´avrò vista («Come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Di quale impedimento ciancerò, non avendolo neanche sfiorato? Dirò che ho letto tanti manuali, ma in quale manuale è contemplato il preciso tifone che mi s´accampa forse davanti? Non sono, tutte le «strategie della tempesta» enumerate dagli esperti, figlie – come dice Keynes – di qualche economista defunto? Il fatto è che dovevo arrivare al porto di Fu-Chau venerdì a mezzogiorno, col mio carico umano di coolies cinesi, e che per evitare un tifone che mi resta ignoto ho fatto tutto un giro di Peppe e non ho rispettato i patti. Questo mi rende inaffidabile, non atto al comando, ora e in futuro. La tua occasione è questa, ed è ora e qui».
Ecco, a me sembra che gli uomini eccelsi siano creature delle occasioni, colte nel momento in cui si presentano. Non appaiono prima che l´ora spunti e il vento li metta alla prova, minacciando di separare individui e nazioni. Si può contrastare infatti la sua forza disgregatrice, traversando da forti il tifone. In Europa, oggi, quel che salva è guardare in faccia la tempesta, farsi da essa educare alla grandezza, arrivare in porto all´ora giusta. Quel che ci perde è allungare il tragitto di 300 miglia, far deviare la nave di cinquanta gradi verso Est: un incubo, per il capitano della Nan-Shan.
Gli euroscettici somigliano al primo ufficiale Jukes, che suggerisce di allungare la via: gli stessi tremori e timori li indolenziscono. L´ora del grande vento non è la migliore – dicono – per azioni ardite. Non è questo il momento, in tanta turbolenza, di ripensare l´Europa, di immaginare quel che si perde scassandola, di escogitare i mezzi perché possa resistere solidalmente alla recessione, non isolando i popoli uno dall´altro. Salvare l´idea europea dello Stato sociale, ricominciare a crescere ma in maniera diversa, risparmiando energia e sintonizzandosi con i Paesi emergenti che crescono al posto nostro: tale la via. E dare agli europei un corpo politico più vasto: perché la taglia conta nella mondializzazione, se vuoi governarla e non affidarla solo ai mercati.
Gli eurobond di cui si parla in questi giorni (proposti da Tremonti e il presidente dell´Eurogruppo Jean-Claude Juncker, da Mario Monti, da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio) sono frecce che l´Unione potrebbe mettere nella sua faretra. E certo son tanti i problemi, ma anche per l´Europa vale la domanda sorta in Italia di fronte agli sconquassi berlusconiani: se non ora, quando? È ora che va riaggregato quel che il vento disgrega. È ora che i politici sono chiamati a farsi modellare dal tifone e apprendere il comando. È ora che occorre avere fiducia nella società e nelle nuove generazioni, le più colpite dalla crisi perché a lungo trascurate dalle generazioni precedenti.
Che la Germania sia oggi la più paralizzata ha qualcosa di stupefacente e tragico. Proprio lei che ha sperimentato la rinascita dopo il disastro oggi si chiude, si assoggetta a defunti dottrinari del mercato. Pensa che ognuno debba far prima ordine in casa propria. È tentata dal destino della piccola Svizzera, sfiancata da una moneta troppo forte. Senza ben saperlo, è immersa in discorsi decadenti sull´Europa.
I discorsi sulla decadenza sono un´impostura, sempre: per l´Europa e ancor più per i giovani (con che faccia tosta dir loro che il mondo finisce?). I rinvii e le ignavie fanno comodo ai gruppi di interesse che corrodono le democrazie, ma il comodo è breve anche per loro. Le deviazioni non ci fanno tornare indietro agli Stati-nazione, come alcuni sperano o temono. Non ritorneremmo, se l´Euro si sfasciasse, allo Stato sovrano descritto da Nietzsche («il più freddo di tutti i mostri freddi») perché quel che accade è per buona parte del mondo un progresso, col quale entreremo in contatto solo se faremo blocco. Solo se gli Stati risaneranno le proprie economie, e al contempo faranno in modo che una nuova crescita parta dal continente Europa.
Gli eurobond potrebbero aiutare questa crescita collettiva, perché implicano l´istituzione di un Fondo finanziario europeo, che emetta titoli di due tipi: titoli per trasformare i debiti degli Stati in debito europeo, e titoli per finanziare nuovi piani infrastrutturali comuni. All´inizio l´idea fu considerata utopica. La proposero fin dal maggio 2008 tre economisti – Alfonso Iozzo, Stefano Micossi, Maria Teresa Salvemini – in un progetto per il Centro studi di politica europea a Bruxelles (Ceps). L´estendersi della crisi resuscita l´idea. Ma allo stesso modo in cui fu necessario creare nuove condizioni perché l´Euro nascesse – sostiene Alfonso Iozzo – oggi occorre un salto di qualità dell´Unione: «Nel caso della moneta unica, fu necessario rassicurare i tedeschi con il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità. Non diversa la sfida degli eurobond: per il passaggio dai debiti nazionali al debito federale europeo, saranno necessarie norme costituzionali dell´Unione che garantiscano la supremazia delle decisioni europee sulla possibilità di fare deficit a livello nazionale».
L´altro scenario c´è: è il giro di Peppe. Se aspettiamo il bel tempo saremo perduti, perché è quando fa brutto che l´uomo escogita l´ombrello, i tetti sopra le case, il fuoco per scaldarsi. Anche il Welfare fu concepito da Beveridge in piena guerra, nel ´42. I giovani, quando vedranno che i vecchi s´inventano tetti e ombrelli, non si ribelleranno.

Barbara Spinelli