giovedì 29 dicembre 2011

In ricordo di Giorgio Bocca

In ricordo di Giorgio Bocca

Il bel paese dov'è difficile vivere

di Giorgio Bocca

I vescovi ci invitano ad avere speranza. Ma l'impressione generale è che sia troppo tardi per venir fuori dalla palude. Manca infatti una volontà diffusa di cambiare. E si confida troppo nello "stellone" per uscire dai guai (28 ottobre 2011)
 
Dicono che bisogna credere nel futuro, in un futuro diverso, migliore di questo presente, di questa marmellata di cose, oggetti, bisogni fra cui strisciamo. Non c'è neppure odio per le generazioni che ci hanno condotto in questa palude. Certo hanno mal governato il paese, lo hanno compromesso, hanno lasciato crescere la malavita, hanno dato ai cittadini un'unica morale, un'unica aspettativa: rubare allo Stato dove si può, finché si può.
Che altro vogliono dire i vescovi quando lamentano la mancanza di etica della nostra società, la mancanza di buone regole, di buoni comportamenti? L'impressione generale, scoraggiante, paralizzante è che sia troppo tardi per venirne fuori, le complicità sono troppe, le malversazioni di massa soffocanti, le occasioni di riscatto rare: non c'è un prevedibile 25 luglio per l'arresto del tiranno, non c'è un 8 settembre per l'inizio della guerra partigiana, non c'è un'occupazione straniera di cui liberarsi.

Sono le grandi dimensioni dei nostri attuali vizi, delle nostre pigrizie, delle nostre cattive abitudini a imprigionarci. Questa volta i "mille" del coraggio e dell'avventura sembrano scomparsi.
Ogni sera gli italiani che ancora desiderano vivere in una libera democrazia si chiedono quanto durerà questo decadimento, questa resa al peggio, e se questa rinascita è realmente possibile o un vano desiderio che si rinnova di generazione in generazione. Il capo della polizia borbonica non accoglieva a Napoli il liberatore Garibaldi per disarmarlo, non consegnava la guida dell'ordine pubblico ai capi della camorra? Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa non è l'eterna vittoria dei reazionari?

Nella mia vita ho visto cadere alcuni regimi autoritari, a cominciare da quello fascista, quasi sempre per autodistruzione. Le sedi dei partiti restavano aperte ma vuote, gli iscritti buttavano via le tessere e i distintivi, ritornavano i vecchi partiti guidati dai revenant, dai politici di ritorno.
Ci risiamo? Ogni sera agli italiani si chiedono quando avverrà, come andrà a finire. Che fare? Mandare in galera tutti i ladri? Si organizzerebbero subito come il partito più forte del paese e comunque le prigioni non basterebbero. Fare l'ennesima rivoluzione gattopardesca, cambiare tutto perché nulla cambi? L'ennesima rivoluzione per finta, con i furbi e i ladri lesti a tornare al potere? Sono i grandi numeri, le grandi dimensioni di questa società a impedire che cambi veramente.

Nei primi anni della repubblica un giornalista napoletano di nome Guglielmo Giannini inventò "l'uomo qualunque" un movimento insensato, nemico della politica ma con la pretesa di fare la migliore delle politiche. Arrivò a vendere 700 mila copie e fu ucciso dal suo successo senza sbocco: non aveva un progetto fattibile, scomparve senza lasciare traccia se non nella sua inconsistenza, nella sua volgare utopia.
Il difetto vero degli italiani lo aveva colto Leopardi quando denunciava la mancanza di un'opinione pubblica capace di una scelta etica. L'ultima illusione è stata quella della guerra partigiana: guerra di popolo per la libertà e la giustizia che diede al paese un forte impulso riformatore, durato mezzo secolo, una volontà di diventare finalmente un paese democratico. Quest'ultima illusione sembra davvero consumata.

Il paese è bello, ricco di beni naturali, ma è molto difficile viverci per l'anarchia di chi ci abita. Per l'illusione costante di poter migliorare la società senza disciplina e senza sacrifici, per l'idea assurda che esista uno "stellone", una garanzia di fortuna che spontaneamente risolve i problemi del paese.

domenica 23 ottobre 2011

Ricordo di Antonio Cassese

E’ morto questa notte a 74 anni, nella sua casa di Firenze, Antonio Cassese.
Insigne giurista, docente di diritto internazionale, più volte presidente di tribunali penali internazionali contro i crimini di guerra, era anche scrittore e docente di diritto internazionale.

Riporto di seguito il suo ultimo articolo, pubblicato su “Repubblica” il 2 ottobre u.s.

IL PADANO NON È UN POPOLO
Ha forse torto Giorgio Napolitano a dimenticare il «diritto universale dei popoli all’ autodeterminazione», come ha detto l’ onorevole Roberto Calderoli? No, è Calderoli che ha torto quando rivendica quel diritto per il così detto popolo padano. Né la Costituzione italiana, né il diritto internazionale conferiscono l’ autodeterminazione agli abitanti della Padania. La nostra Costituzione è chiarissima. L’ articolo 5 proclama che la Repubblica è una e indivisibile, anche se attenta alle esigenze dell’ autonomia e del decentramento. E infatti neanche l’ Alto Adige, una regione con una forte minoranza linguistica, e i cui leader politici avevano invocato per anni la secessione, l’ ha ottenuta, perché contraria alla nostra Carta costituzionale. Ma nemmeno il diritto internazionale, ancora impregnato delle idee lanciate nel 191415 dal presidente statunitense Wilson e da Lenin, riconosce alcun diritto al “popolo padano”. Attualmente il diritto internazionale accorda l’ autodeterminazione “esterna”, e cioè il diritto all’ indipendenza eventualmente raggiungibile attraverso la secessione, solo a tre categorie di “popoli”: (1) quelli coloniali; (2) quelli sottoposti a dominio straniero o ad occupazione militare (come il popolo palestinese o quello del Sahara ex spagnolo sottoposto all’ occupazione del Marocco); (3) ai gruppi “etnico-razziali-religiosi” discriminati così gravemente a livello politico e sociale dalle autorità centrali da non essere in alcun modo rappresentati nelle assise di governo (è quel che succedeva alla maggioranza di colore in Sudafrica all’ epoca dell’ apartheid). Ora, è chiaro che il “popolo padano” potrebbe tutt’ al più ricadere nella terza categoria. Ma così non è, per due ragioni. Ove anche quel “popolo” costituisse una minoranza etnico-razziale-religiosa, il che non è, è un fatto che non solo non è discriminato politicamente e socialmente ma che ha addirittura tre ministri al governo. Per una ragione simile qualche anno fa la Corte Suprema del Canada negò l’ autodeterminazione al Québec – che pure costituisce una minoranza linguistico-religiosa – appunto perché quella minoranza non era affatto discriminata a livello politico centrale. Ma la ragione determinante è che la Padania è solo un’ entità geografica, anche se ha le sue tradizioni e ha dato vita ad un partito politico. Quindi, parlare per essa di autodeterminazione e secessione è parlare a vanvera. Ovviamente Calderoli nemmeno potrebbe invocare il diritto all’ autodeterminazione “interna”, che è il diritto universale ad un sistema rappresentativo, pluripartitico e democratico: sistema questo che è già pienamente operante in Italia. Sarebbe opportuno che si smettesse di inquinare il discorso politico con fumose ed inconsistenti chimere, che creano aberranti aspirazioni, distraendo dai tanti gravi problemi che affliggono l’ Italia. E forse sarebbe utile che alcuni nostri politici si leggessero qualche manuale elementare di diritto costituzionale e internazionale.
ANTONIO CASSESE

mercoledì 5 ottobre 2011

Wikipedia si autosospende per protestare contro il ddl “antintercettazioni” e “ammazza-blog”













Pubblico il testo integrale del comunicato di Wikipedia, appena diramato, che in questo momento compare sulla home page dell’edizione italiana dell’enciclopedia on line; le 800mila voci di Wikipedia Italia sono al momento inaccessibili. Pieno sostegno e solidarietà a questa iniziativa di Wikipedia che si lega a quella di tanti blogger in questi giorni.

Cara lettrice, caro lettore,

in queste ore Wikipedia in lingua italiana rischia di non poter più continuare a fornire quel servizio che nel corso degli anni ti è stato utile e che adesso, come al solito, stavi cercando. La pagina che volevi leggere esiste ed è solo nascosta, ma c’è il rischio che fra poco si sia costretti a cancellarla davvero.
Negli ultimi 10 anni, Wikipedia è entrata a far parte delle abitudini di milioni di utenti della Rete in cerca di un sapere neutrale, gratuito e soprattutto libero. Una nuova e immensa enciclopedia multilingue e gratuita.
Oggi, purtroppo, i pilastri di questo progetto — neutralità, libertà e verificabilità dei suoi contenuti — rischiano di essere fortemente compromessi dal comma 29 del cosiddetto DDL intercettazioni.
Tale proposta di riforma legislativa, che il Parlamento italiano sta discutendo in questi giorni, prevede, tra le altre cose, anche l’obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine.
Purtroppo, la valutazione della “lesività” di detti contenuti non viene rimessa a un Giudice terzo e imparziale, ma unicamente all’opinione del soggetto che si presume danneggiato.
Quindi, in base al comma 29, chiunque si sentirà offeso da un contenuto presente su un blog, su una testata giornalistica on-line e, molto probabilmente, anche qui su Wikipedia, potrà arrogarsi il diritto — indipendentemente dalla veridicità delle informazioni ritenute offensive — di chiederne non solo la rimozione, ma anche la sostituzione con una sua “rettifica”, volta a contraddire e smentire detti contenuti, anche a dispetto delle fonti presenti.
In questi anni, gli utenti di Wikipedia (ricordiamo ancora una volta che Wikipedia non ha una redazione) sono sempre stati disponibili a discutere e nel caso a correggere, ove verificato in base a fonti terze, ogni contenuto ritenuto lesivo del buon nome di chicchessia; tutto ciò senza che venissero mai meno le prerogative di neutralità e indipendenza del Progetto. Nei rarissimi casi in cui non è stato possibile trovare una soluzione, l’intera pagina è stata rimossa.
L’obbligo di pubblicare fra i nostri contenuti le smentite previste dal comma 29, senza poter addirittura entrare nel merito delle stesse e a prescindere da qualsiasi verifica, costituisce per Wikipedia una inaccettabile limitazione della propria libertà e indipendenza: tale limitazione snatura i principi alla base dell’Enciclopedia libera e ne paralizza la modalità orizzontale di accesso e contributo, ponendo di fatto fine alla sua esistenza come l’abbiamo conosciuta fino a oggi.
Sia ben chiaro: nessuno di noi vuole mettere in discussione le tutele poste a salvaguardia della reputazione, dell’onore e dell’immagine di ognuno. Si ricorda, tuttavia, che ogni cittadino italiano è già tutelato in tal senso dall’articolo 595 del codice penale, che punisce il reato di diffamazione.
Con questo comunicato, vogliamo mettere in guardia i lettori dai rischi che discendono dal lasciare all’arbitrio dei singoli la tutela della propria immagine e del proprio decoro invadendo la sfera di legittimi interessi altrui. In tali condizioni, gli utenti della Rete sarebbero indotti a smettere di occuparsi di determinati argomenti o personaggi, anche solo per “non avere problemi”.
Vogliamo poter continuare a mantenere un’enciclopedia libera e aperta a tutti. La nostra voce è anche la tua voce: Wikipedia è già neutrale, perché neutralizzarla?
Gli utenti di Wikipedia”

mercoledì 28 settembre 2011

Cassandri e la storia d'Italia pre-leghista: quando Mazzini fece il Po simbolo d'unità

In mostra il documento con cui si dichiarava "fiume nazionale" nel 1849, oltre un secolo prima della Padania

CASERTA - Quarant’anni di attività in ambito farmaceutico come amministratore delegato di un’azienda di Milano e quarant’anni come collezionista di carta: storico appassionato, la doppia vita di Rocco Cassandri inizia dal francobollo, poi passa al documento viaggiato, dalle cartoline alle lettere, per approdare al documento storico e iconografico. Con una chicca, il decreto con cui il triumvirato della Repubblica romana con Giuseppe Mazzini elesse il Po a fiume simbolo dell'unità nazionale, oltre un secolo prima delle cerimonie leghiste al Monviso. Una ricerca continua che non lascia certo spazio alla noia, ma diventa un’attività corroborante. Il filatelico di origine ciociara ma romano di adozione, analizza e studia costantemente materiale storico, in particolare la storia dello Stato Pontificio e della Repubblica romana, una delle pagine più belle e più importanti del risorgimento italiano. Ecco spiegato l’invito alla conferenza tenuta a Sessa Aurunca il 17 settembre in occasione dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia e l’invito a tenere una mostra dei preziosissimi documenti in suo possesso. Solo pochi giorni a disposizione di un pubblico non solo locale, di questo patrimonio culturale, per poter toccare con mano la storia presso il castello ducale della città.

DOCUMENTI DI GARIBALDI, CAVOUR E MAZZINI - Quaranta i documenti esposti a Sessa Aurunca contro le decine di migliaia di pezzi che Rocco Cassandri ha raccolto, dal mercatino di Porta Portese o salvati dal macero o acquistati alle aste. Tre i percorsi previsti: lettere e documenti di personaggi politici come la lettera apostolica di Pio VI del 1820 contro la Carboneria, una lettera di Garibaldi da Caprera del 1868, una lettera di Mazzini, un Decreto di Cavour, una lettera di Nino Bixio; lettere di garibaldini impegnati a combattere sul nostro territorio che scrivono alla famiglia, come quella di Achille Geluardi uno dei Mille che usa carta intestata del precedente corpo dei Cacciatori delle Alpi; interessante la minuta di lettera del 1848 del sindaco di Bugnara che scrive all’intendente di Sulmona e descrive i rivoltosi locali con il tricolore che parlano degli avvenimenti al caffè, definendoli “loschi individui o i signori barbuti comunisti».

LA STORIA MISTIFICATA - Testimonianze che provano che la storia a volte viene mistificata; questi documenti rappresentano in modo esemplare tutti coloro che contribuirono con un coerente impegno, alla emancipazione sociale e civile del Risorgimento, alla realizzazione di un’Italia unita politicamente e salda nella costante ricerca di principi liberali. Un viaggio affascinante nella storia risorgimentale che culmina con l’esposizione di alcuni documenti che ruotano intorno alle vicende della Repubblica Romana del 1849, di questo particolare periodo storico postale, Cassandri dispone di una vasta raccolta di lettere e documenti, che spaziano dalle poste Repubblicane, sino a quelle degli eserciti chiamati a sopprimerla e a ripristinare il potere temporale dell’ultimo «Papa Re» Pio IX. Ad attirare la nostra attenzione è in particolare il manifesto firmato dal triumvirato della repubblica con il quale si dichiara il fiume Po, «fiume nazionale». Un eccezionale documento che proprio in questi giorni sembra rispondere a tono al rito dell’ampolla con le sacre acque del Po, che a Pian del Re nel Monviso, il Senatur ha celebrato insieme al figlio e alla Lega Nord.

IL PO E LA PREVEGGENZA DEI TRIUMVIRI - «Anche se il periodo di vigenza della neonata Repubblica è stato brevissimo, circa 5 mesi dal 9 febbraio al 4 luglio, tanti sono stati i cambiamenti messi in essere e che hanno modificato drasticamente la vita sociale nei territori delle 4 regioni pontificie (Lazio, Umbria, Marche e Romagna) che questa ha governato - ha spiegato l’esperto storico -. L’abolizione della pena di morte ed il suffragio universale, anche se esteso solo agli elettori maschi, sono alcuni degli esempi di quanta lungimiranza sussistesse nel governo della “cosa pubblica” da parte del triumvirato. In pochi mesi tutta l’amministrazione pubblica fu ristrutturata, si batté nuova moneta, si emisero obbligazioni ed addirittura ci si preoccupò di decretare che il fiume Po fosse dichiarato fiume nazionale. Probabilmente – conclude Cassandri - i triumviri hanno avuto un momento di preveggenza anche se mai avrebbero pensato che nel secolo successivo, qualcuno lo avrebbe scelto, in contrapposizione, come simbolo di secessione dell’Italia faticosamente unita».

Fernanda Esposito
Corriere del Mezzogiorno 19 settembre 2011

martedì 20 settembre 2011

XX settembre 1870

Il 20 settembre 1870 le truppe italiane entravano a Roma, riuscendo ad aprirsi una breccia a Porta Pia, sconfiggendo le truppe papaline.
La presa di Porta Pia rappresentò non solo l’annessione di Roma al giovane Regno d’Italia di cui divenne capitale, ma anche la caduta del Potere temporale della Chiesa. Infatti, venne sancita la separazione fra potere statale e potere temporale, concedendo al Papa solamente il governo della Città del Vaticano. 
Il XX settembre divenne festa nazionale italiana, una giornata nazionale della laicità dello Stato. Con il fascismo si eliminò la festa e dalla sua caduta non fu mai più ripristinata.
Purtroppo, oggi, la separazione fra Chiesa e Stato sancita nel Risorgimento è pressoché inesistente dopo la stipula del Concordato fra Mussolini e la Santa Sede nel 1929, inserito anche nella Costituzione repubblicana (Art. 7) nel 1947, ed il successivo Concordato, con il governo Craxi, stipulato fra Italia e Vaticano.

mercoledì 14 settembre 2011

Camilleri: ''Garibaldi come Che Guevara ma non commise il suo errore''

Lo scrittore in un'intervista a cura di Roberto Riccardi contenuta nel libro 'Camicie rosse, storie nere': ''Garibaldi sceglie perfettamente il teatro in cui operare, la Sicilia. L'isola era stata un continuo terremoto, dal 1848 in poi''
La spedizione dei Mille, "composta da gente di ogni parte della Penisola e anche da stranieri, è il gesto di guerra che ha dato concretamente inizio all'unità d'Italia. E' un viaggio molto bello, a pensarci bene, perché si tratta di 1.080 persone che s'imbarcano a Quarto su due navi, più o meno avventurosamente si riforniscono di carburante e di quello che serve, eludono la sorveglianza dei militari e arrivano a Marsala. Nella durata di un viaggio, in cui si parla poco l'italiano e molto il dialetto, questa gente eterogenea e raccogliticcia, animata però di uno spirito comune, diventa un esercito". A raccontare l'impresa di Garibaldi è Andrea Camilleri, in un'intervista a cura di Roberto Riccardi contenuta nel libro 'Camicie rosse, storie nere', edito da Hobby Work.
Garibaldi? "Guardando alla mitologia odierna si potrebbe considerarlo una sorta di Che Guevara, che però non commette il suo errore, cioè andare dove non c'è un terreno fertile. Garibaldi sceglie perfettamente il teatro in cui operare, la Sicilia. L'isola - racconta - era stata un continuo terremoto, dal 1848 in poi. Anche perché il regno borbonico si era preoccupato di regnare, ma non di avere dei cittadini borbonici, di trovare un'unità al suo interno, per esempio tra napoletani e siciliani. In Sicilia, anche per questo motivo, le spinte separatiste rimasero vivissime. Vi attecchirono in parallelo le idee liberali, che erano molto combattute a Napoli, dove si avvertiva la diretta pressione dei Borbone, mentre a Palermo non era così. Il capoluogo isolano aveva avuto addirittura un suo Senato, una forma d'indipendenza con Ruggero Settimo, e quindi il terreno era ottimo per una rivolta".


'Camicie Rosse, Storie Nere' raccoglie gli interventi di tredici giallisti italiani che, tra fiction letteraria e verosimiglianza storica, ripercorrono le vicende dei garibaldini.

"La cosa più bella della Storia - fa notare Camilleri - è che in essa tutto è necessario. La necessità di un fatto, però, non la avverti sul momento. Te ne accorgi dopo che era tassativo che un certo episodio si verificasse. Ma sulla necessità storica dell'Unità d'Italia, assoluta, ineludibile, non ci piove. All'interno dei grandi movimenti storici del tempo, tutto ciò che è stato si rivela necessario, a posteriori. I latini dicevano: post hoc, propter hoc''. ''Ora però proporrei una spedizione a rovescio. Partire da Marsala e sbarcare nel Bergamasco o nel Bresciano, dove di garibaldini ce ne furono tanti. Così facciamo una volta per uno". Certo in Lombardia, fa notare Riccardi allo scrittore, il mare non arriva. "E sennò' - replica Camilleri - che impresa sarebbe?"

(FONTE: www.adnkrono.com)

venerdì 2 settembre 2011

Non studiate!

CARI RAGAZZI, cari giovani: non studiate! Soprattutto, non nella scuola pubblica. Ve lo dice uno che ha sempre studiato e studia da sempre. Che senza studiare non saprebbe che fare. Che a scuola si sente a casa propria.

Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? Difficile.

Qualsiasi libero professionista, commerciante, artigiano, non dico imprenditore, guadagna più di loro. E poi vi pare che godano di considerazione sociale? I ministri li definiscono fannulloni. Il governo una categoria da “tagliare”. Ed effettivamente “tagliata”, dal punto di vista degli organici, degli stipendi, dei fondi per l’attività ordinaria e per la ricerca.

E, poi, che cosa hanno da insegnare ancora? Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. A proposito dei quali, voi, ragazzi, ne sapete molto più di loro. Perché voi siete, in larga parte e in larga misura, “nativi digitali”, mentre loro (noi), gli insegnanti, i professori, di “digitali”, spesso, hanno solo le impronte. E poi quanti di voi e dei vostri genitori ne accettano i giudizi? Quanti di voi e dei vostri genitori, quando si tratta di giudizi – e di voti – negativi, non li considerano pre-giudizi, viziati da malanimo?

Per cui, cari ragazzi, non studiate! Non andate a scuola. In quella pubblica almeno. Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato. Sul Pubblico. Sui privilegi della Casta. (Cioè: degli altri). L’Istruzione, la Cultura, a questo fine, non servono.

Non studiate, ragazzi. Non andate a scuola. Tanto meno in quella pubblica. Anni buttati. Non vi serviranno neppure a maturare anzianità di servizio, in vista della pensione. Che, d’altronde, non riuscirete mai ad avere. Perché la vostra generazione è destinata a un presente lavorativo incerto e a un futuro certamente senza pensione. Gli anni passati a studiare all’università. Scordateveli. Non riuscirete a utilizzarli per la vostra anzianità. Il governo li considera, comunque, “inutili”. Tanto più come incentivo. A studiare.

Per cui, cari ragazzi, non studiate. Se necessario, fingete, visto che, comunque, è meglio studiare che andare a lavorare, quando il lavoro non c’è. E se c’è, è intermittente, temporaneo. Precario. Ma, se potete, guardate i maestri e i professori con indulgenza. Sono una categoria residua (e “protetta”). Una specie in via d’estinzione, mal sopportata. Sopravvissuta a un’era ormai passata. Quando la scuola e la cultura servivano. Erano fattori di prestigio.

Oggi non è più così. I Professori: verranno aboliti per legge, insieme alla Scuola. D’altronde, studiare non serve. E la cultura vi creerà più guai che vantaggi. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Ma oggi non conviene. Si tratta di vizi insopportabili. Cari ragazzi, ascoltatemi: meglio furbi che colti!

Ilvo Diamanti
La Repubblica 1 settembre 2011

giovedì 1 settembre 2011

Rocco e i suoi fratelli di carta

E chi l’avrebbe detto che anche a quest’età può succederti di fare l’autostop? Invece succede, soprattutto se devi arrivare in tempo a prendere un treno a Torino e sei in un paesino delle Alpi di trecento abitanti. Non si accetteranno caramelle dagli sconosciuti, ma lo sconosciuto è gentile e si è reso disponibile appena ha saputo del bisogno, “tanto anch’io devo andare a Torino”. Ha il viso simpatico, un accento da meridionale arrivato al nord da qualche decennio, una Citroën diesel con l’aria veterana. E deve essere un buon lettore: ha un po’ di giornali sul sedile e prima di partire passa per uno di quei crocicchi dove si prendono e si lasciano libri gratis, uno scambio anonimo tra viandanti colti. Si chiama Rocco, Rocco Pinto. E il nome aumenta la simpatia. Profuma di antico, nella vertigine odierna di Lorenzi, Jacopi e Luchi.

“Rocco e i suoi fratelli” vien da interloquire senza troppa fantasia. “L’ha detto, io sono proprio Rocco e i suoi fratelli!”. Sorride guidando. “Metta Torino al posto di Milano ed è fatta. Sono lucano anch’io, sono nato a Rapone, in provincia di Potenza ai confini con l’Irpinia, nel 1959. Mio padre faceva il calzolaio ed era pure bravo, avevamo una piccola trattoria. Mio fratello più grande venne mandato a studiare a Torino, dove c’erano degli zii che lavoravano in cantiere: a quindici anni faceva il falegname apprendista di giorno e la scuola tecnica alla sera, all’Avogadro. Poi arrivammo noi, tutti gli altri. Mio padre, mia madre, io, mia sorella, e altri due fratelli. Andammo a dormire in una soffitta in via Mercanti, due stanze per otto persone perché c’era anche mia nonna. Mio padre andò in cantiere pure lui. Lavorava la pietra: due martelli, una cazzuola e un secchio. Io andai in quinta elementare e scoprii che quasi tutti i miei compagni erano meridionali, una autentica babele di dialetti. Ma la sto annoiando?”.

Per carità. Lo sconosciuto gentile sembra spuntato dal nulla in questo 150esimo anniversario di unità d’Italia per raccontare un pezzo di storia vera, mica le bubbole della Padania o la retorica del Belpaese. “Le medie le feci al Baretti. E lì incominciò la mia nuova vita. Prima di tutto mi innamorai del Toro, ed era una rarità perché i figli degli immigrati diventavano juventini. Poi incominciai a pormi qualche domanda. Lei pensi che al mio paese c’erano sì e no mille abitanti. E che mi trovai in una città smisurata, dove c’erano manifestazioni smisurate, gente che urlava, sassaiole, e quei grandi cartelli con su scritto ‘Agnelli e Pirelli ladri gemelli’ e io non capivo. Poi qualcosa mi veniva detto dai miei fratelli più grandi, oppure a scuola. Fu lì che trovai un professore di italiano che mi fece innamorare dei libri e della lettura”.

Ci siamo, pensi, ora mi dice che mestiere fa. “A casa mia non leggeva nessuno. Io sbagliavo gli accenti e le acca e me lo sarei portato dietro per un bel po’ questo difetto, perché non c’è niente di peggio che una scuola elementare fatta male. Lavoravamo tutti. Un altro mio fratello aveva smesso presto di studiare e faceva il garzone in un bar. Io e l’altro mio fratello andavamo anche noi in cantiere per arrotondare d’estate. No, non abbiamo fatto la fame, perché tutti i maschi portavano soldi a casa e poi lì c’era mia madre, una donna straordinaria, che teneva insieme tutto. Il problema era integrarsi, semmai”.

“Poi feci lo scientifico, e capii sempre di più quel che stava accadendo a Torino. E andai a fare il servizio militare. Accompagnavo un non vedente, un funzionario del Pci, e allora gli leggevo tanti libri ad alta voce, vede come si coltivano le passioni? A volte è il caso. Trovai il mio primo lavoro in università, a Palazzo Nuovo. Un sogno: in libreria, Celid si chiamava, Cooperativa editrice libraria di informazione democratica, era nata dalla contestazione. Feci il fattorino, poi il magazziniere, infine il commesso dietro il bancone. Mi laureai in lettere. La tesi? La feci sulle letture del libraio”.

In certi momenti non si ha voglia di fare domande, l’interlocutore dice comunque cose più interessanti di quelle che gli chiederesti. “Be’, sì, di libri un po’ mi intendo. L’ha mai letto Salvatore Satta? No? Guardi tenga qui ‘Il giorno del giudizio’, è uno dei capolavori del novecento italiano. Glielo regalo. No, lo tenga. Leggo di tutto, anche se sono esigente: Parise, la Morante… Una volta mi appassionavo alle cronache politiche, ne discutevo con gli amici, ora non ci riesco più. Mi sento disarmato. D’altronde che dovremmo aspettarci quando metà della popolazione non legge neanche un libro all’anno, e questa è la media perché il Sud è uno sfacelo? Il mio sogno è di diventare come il mio professore delle medie e diffondere cultura. Pensi che alcuni anni fa andammo con degli scrittori e Goletta verde per un intero maggio in giro per la Calabria a promuovere la lettura. Ora sto preparando un forum a Matera, con Giuseppe Laterza, Antonio Sellerio, Carla Ida Salviati, per una legge di iniziativa popolare su libri e lettura. Sarà a ottobre. Glielo confesso, ho spinto io per farlo a Matera, è la mia terra”.

La stazione di Porta Nuova è arrivata. “Che mestiere faccio? Dirigo la libreria ‘La torre di Abele’ qui a Torino”. C’era da giurarci. Ma questa è la storia di un’Italia, ancora in mezzo a noi, che andava raccontata. Di quando i figli dei calzolai diventavano intellettuali e ogni figlio portava i soldi a casa. E i Rocco, i Giuseppe e i Salvatore rinsanguavano il Nord facendone, da una soffitta, una delle terre più benestanti e progredite al mondo.

Nando dalla Chiesa

La prova del tifone

Hanno la memoria corta, coloro che guardando fuori dalla finestra, e vedendo i tempi come son brutti, concludono che non è sotto cieli sì rabbuiati che si può fare dell´Europa una grande potenza.Una grande potenza decisa a non farsi abbattere dalle raffiche dei mercati e da quel che le raffiche dicono: la crisi di un mondo, non del mondo; la nascita di un universo multipolare, non più egemonizzato da America e Occidente. L´idea dell´unificazione europea non nacque nei sogni di uomini che se ne stavano sdraiati su verdi prati, ma nella tormenta e nella guerra, quando le forze dei nazionalismi e delle dittature mietevano morte.
Lo sanno gli italiani, che da quelle guerre uscirono più saggi perché vinti. Lo sanno soprattutto i tedeschi, per i quali l´Europa fu redenzione democratica. Sembrano averlo dimenticato, ma se negli Anni ´30 la crisi li spezzò, anche spiritualmente, fu perché la Germania era stata trattata, dopo il 14-18, come uno Stato da vessare, da punire economicamente. I suoi creditori furono esosi e sterminatamente vacui, le riparazioni imposte al vinto divennero un cappio insostenibile. I disoccupati, alla fine del ´31, erano 6 milioni. Mancò nei vincitori la saggezza della solidarietà e fu catastrofe, per i tedeschi e per l´Europa.
I moderni euroscettici non sanno la storia che fanno e che ripetono, intontiti. Anche, quando commentano tristemente che mancano stavolta i grandi uomini, che il vento della crisi è troppo forte per prendere decisioni, che la decadenza essendo alle porte non resta che intirizzire e rimpicciolirsi, non sanno quel che dicono. È vero, mancano i grandi, la bufera travolge e sparpaglia gli uomini: che altro fare, se non pregare? È quel che fanno i politici: invece di agire, predicano. Viene in mente il Tifone di Joseph Conrad: «È questa la forza disgregatrice di un gran vento: isola l´uomo dai propri simili».
Quel breve romanzo di Conrad vale la pena rimeditarlo, perché in esso oggi ci rispecchiamo e perché nostra è la domanda che assilla il protagonista, il capitano MacWhirr. Il suo vice, Jukes, gli fa capire a un certo punto che l´immane tempesta forse la potrebbe schivare, deviando dalla rotta stabilita. Perché MacWhirr non segue questo consiglio in apparenza prudente, di buon senso? Perché si getta a capofitto nel tifone quando potrebbe aggirarlo? MacWhirr ha qualcosa di ottuso, cocciuto, non immaginativo, lo sguardo perso nel vuoto. Quel che dice a se stesso, provo a riassumerlo in un monologo immaginario: «Cosa dirò, quando arriverò al porto con due giorni di ritardo avendo allungato il percorso pur di scansare la tormenta? Non potrò giustificarmi evocandola, perché neppure l´avrò vista («Come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Di quale impedimento ciancerò, non avendolo neanche sfiorato? Dirò che ho letto tanti manuali, ma in quale manuale è contemplato il preciso tifone che mi s´accampa forse davanti? Non sono, tutte le «strategie della tempesta» enumerate dagli esperti, figlie – come dice Keynes – di qualche economista defunto? Il fatto è che dovevo arrivare al porto di Fu-Chau venerdì a mezzogiorno, col mio carico umano di coolies cinesi, e che per evitare un tifone che mi resta ignoto ho fatto tutto un giro di Peppe e non ho rispettato i patti. Questo mi rende inaffidabile, non atto al comando, ora e in futuro. La tua occasione è questa, ed è ora e qui».
Ecco, a me sembra che gli uomini eccelsi siano creature delle occasioni, colte nel momento in cui si presentano. Non appaiono prima che l´ora spunti e il vento li metta alla prova, minacciando di separare individui e nazioni. Si può contrastare infatti la sua forza disgregatrice, traversando da forti il tifone. In Europa, oggi, quel che salva è guardare in faccia la tempesta, farsi da essa educare alla grandezza, arrivare in porto all´ora giusta. Quel che ci perde è allungare il tragitto di 300 miglia, far deviare la nave di cinquanta gradi verso Est: un incubo, per il capitano della Nan-Shan.
Gli euroscettici somigliano al primo ufficiale Jukes, che suggerisce di allungare la via: gli stessi tremori e timori li indolenziscono. L´ora del grande vento non è la migliore – dicono – per azioni ardite. Non è questo il momento, in tanta turbolenza, di ripensare l´Europa, di immaginare quel che si perde scassandola, di escogitare i mezzi perché possa resistere solidalmente alla recessione, non isolando i popoli uno dall´altro. Salvare l´idea europea dello Stato sociale, ricominciare a crescere ma in maniera diversa, risparmiando energia e sintonizzandosi con i Paesi emergenti che crescono al posto nostro: tale la via. E dare agli europei un corpo politico più vasto: perché la taglia conta nella mondializzazione, se vuoi governarla e non affidarla solo ai mercati.
Gli eurobond di cui si parla in questi giorni (proposti da Tremonti e il presidente dell´Eurogruppo Jean-Claude Juncker, da Mario Monti, da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio) sono frecce che l´Unione potrebbe mettere nella sua faretra. E certo son tanti i problemi, ma anche per l´Europa vale la domanda sorta in Italia di fronte agli sconquassi berlusconiani: se non ora, quando? È ora che va riaggregato quel che il vento disgrega. È ora che i politici sono chiamati a farsi modellare dal tifone e apprendere il comando. È ora che occorre avere fiducia nella società e nelle nuove generazioni, le più colpite dalla crisi perché a lungo trascurate dalle generazioni precedenti.
Che la Germania sia oggi la più paralizzata ha qualcosa di stupefacente e tragico. Proprio lei che ha sperimentato la rinascita dopo il disastro oggi si chiude, si assoggetta a defunti dottrinari del mercato. Pensa che ognuno debba far prima ordine in casa propria. È tentata dal destino della piccola Svizzera, sfiancata da una moneta troppo forte. Senza ben saperlo, è immersa in discorsi decadenti sull´Europa.
I discorsi sulla decadenza sono un´impostura, sempre: per l´Europa e ancor più per i giovani (con che faccia tosta dir loro che il mondo finisce?). I rinvii e le ignavie fanno comodo ai gruppi di interesse che corrodono le democrazie, ma il comodo è breve anche per loro. Le deviazioni non ci fanno tornare indietro agli Stati-nazione, come alcuni sperano o temono. Non ritorneremmo, se l´Euro si sfasciasse, allo Stato sovrano descritto da Nietzsche («il più freddo di tutti i mostri freddi») perché quel che accade è per buona parte del mondo un progresso, col quale entreremo in contatto solo se faremo blocco. Solo se gli Stati risaneranno le proprie economie, e al contempo faranno in modo che una nuova crescita parta dal continente Europa.
Gli eurobond potrebbero aiutare questa crescita collettiva, perché implicano l´istituzione di un Fondo finanziario europeo, che emetta titoli di due tipi: titoli per trasformare i debiti degli Stati in debito europeo, e titoli per finanziare nuovi piani infrastrutturali comuni. All´inizio l´idea fu considerata utopica. La proposero fin dal maggio 2008 tre economisti – Alfonso Iozzo, Stefano Micossi, Maria Teresa Salvemini – in un progetto per il Centro studi di politica europea a Bruxelles (Ceps). L´estendersi della crisi resuscita l´idea. Ma allo stesso modo in cui fu necessario creare nuove condizioni perché l´Euro nascesse – sostiene Alfonso Iozzo – oggi occorre un salto di qualità dell´Unione: «Nel caso della moneta unica, fu necessario rassicurare i tedeschi con il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità. Non diversa la sfida degli eurobond: per il passaggio dai debiti nazionali al debito federale europeo, saranno necessarie norme costituzionali dell´Unione che garantiscano la supremazia delle decisioni europee sulla possibilità di fare deficit a livello nazionale».
L´altro scenario c´è: è il giro di Peppe. Se aspettiamo il bel tempo saremo perduti, perché è quando fa brutto che l´uomo escogita l´ombrello, i tetti sopra le case, il fuoco per scaldarsi. Anche il Welfare fu concepito da Beveridge in piena guerra, nel ´42. I giovani, quando vedranno che i vecchi s´inventano tetti e ombrelli, non si ribelleranno.

Barbara Spinelli

lunedì 29 agosto 2011

Rudolf Jacobs, il tedesco che divenne partigiano

La mia piccola patria, dietro la Linea gotica sa scegliersi la parte”. Così cantava Giovanni Lindo Ferretti, nella canzone Linea Gotica , facendo riferimento al “comandante Diavolo”, il partigiano Germano Nicolini e al “monaco obbediente”, ovvero Giuseppe Dossetti. Figure note dell’antifascismo e della Resistenza. Molto più di Rudolf Jacobs. Un tedesco.

Conosciuto soprattutto nella città di Sarzana, provincia di La Spezia, dove morì e dove è sepolto. Alla sua memoria il regista Luigi Faccini ha dedicato prima un libro (L’uomo che nacque morendo, 2006) e ora un docu-film, che sarà proiettato come evento speciale della sezione “Controcampo Italiano” alla mostra del Cinema di Venezia, il 2 settembre. Rudolf Jacobs – L’uomo che nacque morendo, come si intitola il lavoro dell’instancabile documentarista, prodotto dall’altrettanto instancabile Marina Piperno (di recente insignita del Nastro d’Argento dalla carriera) vide la luce nel 1914, figlio di un importante architetto di Brema. Esperto lui stesso di costruzioni difensive, venne mandato dagli alti comandi nazisti in Italia, nel 1943, a Lerici, perché lì Rommel temeva uno sbarco alleato.

Ben presto però passò dalla parte dei partigiani. Pagando con la vita il suo gesto. Jacobs, che si unì al Cnl di Lerici iniziando a combattere i propri connazionali, venne ucciso il 3 novembre 1944 mentre era al comando di un’azione partigiana contro le brigate nere. Il regista – autore di decine di documentari, tra cui lavori sulle periferie ben prima che diventassero un “luogo comune” per cinema e documentari (Notte di stelle e Giamaica , girati nei primi anni Novanta a Tor Bella Monaca) – si è immedesimato totalmente nella figura di Jacobs. Le ragioni sono tante. E una è molto personale.

Da piccolo – racconta Faccini – nell’agosto del 1944 scampai alla strage di San Terenzo Monti, sulle Alpi Apuane. Morirono 159 persone. Non avevo neppure 5 anni e ne uscii vivo per caso, grazie a mio zio. Per anni sentire parlare tedesco mi faceva accapponare la pelle. Raccontare quest’uomo mi ha riconciliato anche con una parte della mia memoria”. Ovviamente però il desiderio di parlare di questa scelta, così sconcertante e coraggiosa, vuole parlare anche al presente del nostro Paese. “Chi agì secondo giustizia e libertà in un momento estremo come la guerra al nazi-fascismo, dovrebbe essere ricordato oggi in Italia. Qui abbiamo dimenticato totalmente la Costituzione. Mentre Jacobs, presentandosi alla formazione partigiana a cui si unì, disse: “Darei la mia vita pur di abbreviare di un solo minuto questa guerra insensata”. Una frase potentissima. Jacobs vuole compiere un’azione esemplare e vuole far sapere ai tedeschi che c’è uno di loro contro Hitler, contro l’occupazione.

Jacobs costruiva bunker e fortificazioni. Non era un combattente. “Ma a Lerici si distinse subito: aveva molto riguardo per i bambini italiani, cui dava da mangiare se non ne avevano. Ma distribuiva cibo anche alla gente comune. Il Cnl locale lo iniziò a sorvegliare e poi lo avvicinò. E lui aderì alla lotta antifascista. Come recita il titolo, quest’uomo nacque morendo. Ovvero con la sua morte affermò le proprie idee e l’auspicio di una nuova umanità”. Il film, infatti, si conclude con una dedica: All’Europa che verrà. “Che ancora non c’è – dice con rammarico Faccini – visto che esiste solo l’Europa dell’economia”.

Il film, inizialmente, era stato proposto alla Rai. “Ne parlammo all’allora consigliere d’amministrazione Rognoni. Sembrava che la storia potesse interessare il servizio pubblico. Ma poi calò il silenzio. Alla fine, dopo una lunga attesa, chiedemmo a un dirigente che si occupava di fiction e ci disse: “Un sequel della fiction su San Francesco fa più al caso nostro”. Così non se ne fece niente. E io e Marina lo abbiamo autoprodotto in totale autonomia”. La Piperno, che nasce giornalista e dagli anni Sessanta sostiene un cinema indipendente e corsaro, è anche la compagna di Faccini. Assieme hanno realizzato anche due film su don Andrea Gallo: Andrea, dicci chi sei e Fiore pungente. “Con Andrea siamo ormai amici – dice il regista – Infatti verrà a Venezia, il 2 settembre, per l’incontro con il pubblico. Ha deciso di sostenere personalmente questa storia”. La vicenda sconosciuta di un uomo che lasciò i propri privilegi per unirsi alla Resistenza. Uno che sapeva da che parte stare.

Elisa Battistini

domenica 28 agosto 2011

Grande successo per la campagna NO ALLA SOPPRESSIONE DELLE FESTE CIVILI: prosegue la raccolta di adesioni e la mobilitazione

L’appello lanciato una settimana fa da Roberto Balzani (Univ. di Bologna, Sindaco di Forlì), Thomas Casadei (Univ. di Modena e Reggio Emilia),  Sauro Mattarelli (Presidente Fondazione “Casa di  Oriani” di Ravenna), Maurizio Ridolfi (Preside della Facoltà di Scienze Politiche, Univ. della Tuscia, Viterbo) contro  l’abolizione de facto delle festività del 25 aprile, del Primo maggio e del 2 giugno sta raccogliendo un significativo numero di adesioni, ben superiore alle previsioni degli stessi promotori.  Lanciato dal territorio romagnolo ha raccolto consensi e sottoscrizioni dall’intero territorio nazionale ma anche di cittadini italiani residenti in vari paesi europei.
Finora si registrano oltre 9.000 adesioni. Si tratta di cittadini che intendono ribadire la loro ferma opposizione a un provvedimento che non apporta sostanziali benefici pratici sul piano economico e produce invece un autentico disastro sul piano della coesione sociale. Il disagio e la protesta di molti  riguarda soprattutto la scelta di negare:
- un momento celebrativo per i sentimenti di libertà e di indipendenza insiti nella data del 25 aprile;
- il valore fondante del lavoro, rievocato in tutto il mondo nella data del Primo Maggio e, peraltro, ribadito nell’articolo 1 della Costituzione;
- il senso che lega il percorso unitario Risorgimentale con la realizzazione della Repubblica evocato dalla data del 2 giugno.
L’appello non manca poi di sottolineare la sperequazione che si viene a creare tra feste religiose e feste civili, che verrebbero di fatto cancellate. Ma un vero moto di indignazione riguarda le modalità attuative contenute nella proposta di governo: le feste potrebbero infatti essere “spostate”, al venerdì, al lunedì o alla domenica a seconda delle esigenze: un provvedimento che odora di “concessione”, di “arbitrio” e che rimanda a metodi comunque arbitrari, oltre che a rendere addirittura incerti i prossimi calendari festivi italiani.

Tra le adesioni spiccano quelle di personalità come Ivano Marescotti ed Eraldo Baldini, studiosi del pensiero politico come Arturo Colombo (Univ. di Pavia) e Roberto Gatti (Univ. di Perugia), nonché di Alessandro Campi (intellettuale molto vicino a Gianfranco Fini), ma anche di Demetrio Neri (filosofo morale, componente del Comitato nazionale di Bioetica) e di numerosissimi storici (oltre un centinaio, molti aderenti alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, tra i quali Mario Isnenghi, Michele Sarfatti, Paolo Pezzino, Fulvio Cammarano, Regina Pozzi, Dora Marucco, Leonardo Rapone, Simone Neri Serneri, Marco Gervasoni). E poi ; nonché sociologi come il figlio di Norberto Bobbio, Luigi, e Massimo Rosati dell’Università “La Sapienza” di Roma, e filosofi del diritto come Luca Baccelli, Emilio Santoro, Pierluigi Chiassoni, Tommaso Greco o storici del pensiero giuridico come Elio Tavilla e studiosi dell’Europa e delle relazioni internazionali come Ariane Landuyt (Centro Studi Europeo, Siena) e Giuliana Laschi (Punto Europa Forlì).
Sul versante istituzionale e politico ci sono poi onorevoli come Ignazio Marino, Vincenzo Vita, Maino Marchi, Rita Ghedini, ex parlamentari come Valter Bielli, l’Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna Massimo Mezzetti, e ancora il Segretario del PD ER e consigliere regioale Stefano Bonaccini, i segretari del PD di Bologna Raffaele Donini e di Forlì Marco Di Maio, consiglieri regionali come Antonio Mumolo, Anna Pariani e Mario Mazzotti, numerosi assessori comunali e provinciali, tra i quali la bolognese Marilena Fabbri, ma anche molti esponenti del mondo laico tra i quali il direttore del “Pensiero Mazziniano” Pietro Caruso e Luigi Di Placido (segretario del PRI di Cesena). Folta la rappresentanza di esponenti della CGIL, dell’Anpi, dell’Arci e di altre associazioni culturali. Aderiscono anche giornalisti e commentatori come Massimiliano Panarari e Andrea Riscassi, nonché Gaetano Alessi di “Ad Est”, sodalizio di resistenza contro le mafie.
I cittadini possono continuare a far pervenire le loro sottoscrizioni andando al sito/blog http://soppressionefestecivili.blogspot.com/ (che, oltre a raccogliere adesioni, registra anche pareri, commenti e opinioni, nella tradizione della democrazia partecipata) o scrivendo a nosoppressionefestecivili@gmail.com

10 anni di Fuorionda a Zona Cesarini

10 anni di Fuorionda a Zona Cesarini...

giovedì 25 agosto 2011

Chi parla male, pensa male

Il linguaggio comune, è cosa nota, è uno dei più affidabili indizi del modo di sentire, e pensare di un popolo. Se applichiamo questo criterio al popolo italiano, dobbiamo concludere che negli ultimi quindici anni, anno più anno meno, deve essere accaduto qualcosa di veramente sconvolgente nel nostro costume. In alcuni casi si tratta dell’esacerbarsi di vizi antichi, come quello di non saper tenere una civile conversazione. Lo aveva già notato Leopardi, ma se ai suoi tempi la conversazione era in cattiva salute oggi pare proprio moribonda. Basta osservare un tavolo di commensali al ristorante. Se sono, poniamo, in otto, e sono maschi e femmine, dopo pochi minuti la conversazione si frammenta in due gruppi di quattro persone, spesso da una parte i maschi, dall’altra le femmine, e subito dopo in quattro gruppi di due persone. A tavola: il trionfo del cellulare. Passa qualche minuto e ognuno telefona con il cellulare o è chino su se stesso o se stessa a controllare messaggi o posta.

Se sono presenti bambini non c’è scampo: o sono al centro dell’attenzione come piccoli tiranni (che cresceranno!) oppure arrivano muniti di diabolici strumenti elettronici dai quali non staccano mai gli occhi e le dita se non per mangiare qualche patatina fritta con maionese e ketchup o una pizza stracolma dei più improbabili ingredienti e per bere coca-cola. Del resto sono gli unici gusti ai quali sono stati abituati. Diverso è ovviamente il caso in cui sia presente qualche signore o signora molto più importante degli altri perché allora eccoli tutti a pendere dalle sue labbra, protendersi e annuire.

A compensare il declino della civile conversazione, c’è però il trionfo dell’organo sessuale maschile nella sua accezione più volgare, e dei suoi annessi naturali. Non è necessario citare le infinite espressioni nelle quali compare l’icona della mascolinità (cretina). Molte sono in voga, per lo meno, da decenni. Il trionfo sta nel fatto che ora anche le donne usano abbondantemente il linguaggio del c…. Non c’è quasi più giovinetta o signora anche matura che non senta il dovere di fare sfoggio della sua padronanza del linguaggio in questione. Da questo punto di vista l’uguaglianza fra uomini e donne ha davvero realizzato nel nostroPaese passi da gigante.

Non meno palpabile è la nuova dignità assunta dagli aspetti più banali della vita quotidiana. Le persone intrattengono lunghissime conversazioni al cellulare per raccontare cos’hanno mangiato, com’è la temperatura, come sono vestite e per dare e chiedere notizie della medesima gravità su figli e congiunti. Come facevano, viene da chiedersi, a tenersi dentro, prima dell’avvento del telefono cellulare,tante fondamentali e urgenti domande e osservazioni sulla vita?

E va ancora bene se la conversazione consta di parole, per quanto di poco conto. Spesso la persona che ascolta risponde soltanto per mezzo di mugugni e suoni non meglio definibili. Il nuovo imperativo morale ed estetico pare essere diventato “bando alle astruserie del linguaggio: parliamo con semplicità”, come se la semplicità fosse data da un numero sempre più esiguo di vocaboli, dall’impoverimento della grammatica o, addirittura, dall’emissione   di suoni gutturali quasi animaleschi che sostituiscono le parole. Pasolini denunciò questa deriva già negli anni ‘70 ma, a paragone di quelli di oggi, gli italiani dei suoi tempi parlavano come Accademici della Crusca. Fra le vittime innocenti del nuovo corso c’è, è noto, il congiuntivo.    Non esiste più il “lei”. La dittatura del “tu”.

Oggi le splendide parole della canzone Bufalo Bill di Francesco De Gregori – “se avessi potuto scegliere fra la vita e la morte, fra la vita e la morte, avrei scelto l’America” – sarebbero probabilmente intese come un riferimento a Messi o a Messa (siamo pur sempre cattolici). Altra vittima della semplificazione è il graduale abbandono   del “lei”. Il fascismo aveva tentato di abolirlo, perché di origine spagnola e di sapore borghese, per sostituirlo con il “voi”. Non credo che abbia ottenuto grandi successi. Noi, senza bisogno di alcun decreto governativo, abbiamo ormai spodestato il lei e messo al suo posto un democratico ed egualitario “tu”. Nessuna distinzione di età o di status o cultura o altezza morale conta più. Tutti meritevoli del “tu”, anche il presidente del Consiglio. Tutta la nostra solidarietà a Sandro Bondi che ha giustamente espresso il suo disagio nel vedere persone che lo conoscono appena rivolgersi a Silvio con il “tu” mentre lui usa rigorosamente il “lei”.

Scrivevano i filosofi della politica che caratteristica propria dell’essere umano, e segnatamente del cittadino, è la capacità di esprimere attraverso il linguaggio non soltanto le sensazioni di dolore o di piacere, ma anche ragionamenti morali, politici, estetici, filosofici. Un popolo rozzo può essere dominato. Partecipare alle deliberazioni pubbliche è un’attività che esige la capacità di intendere il significato di concetti complessi e di cogliere bene le distinzioni, per esempio fra libertà e servitù, fra democrazia e populismo, fra governo della legge e dominio degli uomini, e così via. Ma guai a chiedersi come possano assolvere i loro doveri di cittadini degli individui che hanno impoverito il proprio linguaggio, perso la capacità e il gusto di indicare cose diverse con nomi diversi, e non sanno riconoscere e rispettare   le diseguaglianze che meritano di essere riconosciute e rispettate.

Parla bene chi pensa bene, e pensa bene chi sente bene, vale a dire ha retti sentimenti. Ma è vero anche che parla male chi pensa male, o non pensa affatto, e sente peggio. Guai però a sollevare il problema di educare le persone a sentire, pensare, e parlare bene. Scatta subito l’accusa infamante: “moralisti, elitisti!”. Tanta premura a proteggere il popolo dalla fatica di capire e parlare è davvero commovente. Peccato che nasca dalla consapevolezza che un popolo con un linguaggio povero, rozzo e volgare può essere facilmente ingannato e dominato da qualsiasi demagogo, anche uno di mezza tacca e con i tacchi.

Maurizio Viroli

mercoledì 24 agosto 2011

Il canto degli italiani, Roberto Benigni

Scritto da Goffredo Mameli nel 1847, il Canto degli italiani, nostro inno nazionale è stato musicato da Michele Novaro, anch'egli, come Mameli, patriota animato da ideali mazziniani. Come tanta parte di ciò che è scaturito dal Risorgimento, per buona parte degli italiani le parole dell'inno sono mano a mano state dimenticate. Ne era rappresentanza emblematica il silenzio degli atleti italiani al termine o al principio delle gare.
Recentemente, grazie soprattutto all'opera degli ultimi due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, e alla loro opera di recupero della memoria risorgimentale anche l'inno di Mameli è ritornato in auge. Ne è stata una prova l'eccezionale performance di Roberto Benigni su uno dei palchi più popolari d'Italia, quello del Teatro Ariston di Sanremo in occasione del 61° Festival della canzone italiana. Il comico e premio Oscar toscano si è cimentato con l'analisi del testo dell'inno, riuscendo a incollare agli schermi diversi milioni di italiani.

Per poter rivedere l'interpretazione di Benigni a Sanremo:

martedì 23 agosto 2011

LETTERA APERTA AL MINISTRO TREMONTI

 Ecco la lettera dei mazziniani italiani al ministro Tremonti

Signor Ministro,

i mazziniani italiani sono pienamente solidali con il tentativo in corso di risanare i conti pubblici; auspicano anzi interventi più decisi sia nel campo della riduzione dei costi degli apparati istituzionali (leggasi abolizione di tutte le province, come sarebbe stato necessario fare sin dall’istituzione delle regioni a statuto ordinario) sia in quello delle liberalizzazioni (invero ancora timide se si pensa agli intrecci corporativi del sistema Italia). Siamo poi non da ora impegnati per lo sviluppo dell’integrazione europea sul piano politico ed economico; condividiamo l’insoddisfazione per la miopia franco-tedesca ed appoggiamo incondizionatamente la proposta degli  eurobond.
    Per queste ragioni, a fronte della complessa manovra ferragostana, ci sentiamo in dovere di formularLe una preoccupazione, una domanda ed una protesta.
    La preoccupazione riguarda il rischio che anche gli ultimi provvedimenti non siano in grado di invertire la tendenza della crisi italiana, che è al tempo stesso congiunturale e strutturale. Ci resta il dubbio che questa avrebbe potuto essere l’occasione per fare affidamento sul senso di responsabilità degli italiani e colpire una volta per tutte anche le rendite parassitarie del pubblico come del privato.
    La domanda si rivolge invece all’insistenza con cui Lei continua a chiedere la riforma anche dell’articolo 41, oltre che dell’articolo 81, della Costituzione. Ci chiediamo se Lei abbia letto adeguatamente i lavori preparatori di quell’articolo presso l’Assemblea Costituente: è il frutto di una riflessione congiunta e non di parte che non a caso ha fissato in termini mazziniani la funzione sociale dell’economia garantendo la libertà individuale e collettiva. Ben altri sono i lacci e i laccioli che in Italia frenano le liberalizzazioni economiche. Francamente, sembra che Lei mobiliti un carro armato per colpire una mosca!
    Infine, protestiamo per il modo ed il merito per quanto concerne il cosiddetto accorpamento delle festività civili alle domeniche. Non ci convince il preteso incremento della produttività rispetto alla media europea, che già contestammo quando all’inizio dell’anno la Confindustria chiese la cancellazione della festa per il 150° anniversario dell’Unità. Basta consultare le prime pagine di qualsiasi azienda per verificare quante festività civili sono diffuse nel resto d’Europa, senza contare le bank holidays. Ci ha però francamente indignato il tono liquidatorio con cui è stato presentato il provvedimento, quando invece è purtroppo sempre più evidente che un Paese che non tiene alla sua memoria manca di coesione e di slancio. Come si può ignorare tutto questo? Non Le sembra di cadere nella trappola che già i Latini avevano individuato del “propter vitam servandam, vivendi perdere causam”? Non si rendono conto il Governo ed il Parlamento che una delle ragioni del declino economico italiano sta proprio nella sfiducia in se stessi e nel progetto comune dello Stato nazionale? Altrettanto inaccettabile è la subordinazione delle festività civili a quelle religiose in quello che è uno Stato laico: gli accordi con la Santa Sede possono infatti essere facilmente rinegoziati e non costituiscono un articolo di fede! Altro sarebbe stato e sarebbe prospettare una sospensione per un periodo di alcune feste nell’ottica di un globale ripensamento della materia in modo più equilibrato e rispettoso della nostra storia! Anche a questo proposito, ci auguriamo che il passaggio parlamentare migliori il testo di una manovra comunque indispensabile.

Genova,19.08.2011

Fonte: www.associazionemazziniana.it

venerdì 19 agosto 2011

Appello contro l'abolizione delle festività civili

Feste civili

La soppressione delle feste civili, contenuta nelle misure straordinarie di finanza pubblica del Governo di questo agosto, è un colpo molto duro inferto al già precario equilibrio simbolico su cu si regge l’identità della Repubblica.

Noi, benché convinti che atti di sobrietà e di austerità siano inevitabili, dati i tempi calamitosi in cui viviamo, riteniamo che l’abolizione delle festività del 25 aprile, del Primo maggio e del 2 giugno produca gravi conseguenze sia sul piano della coesione civile, sia sulla produttività della società italiana, a forte vocazione turistica e culturale.

Non si comprende, in particolare, perché la questione non abbia riguardato l’intero assetto dei giorni festivi del nostro paese, escludendo a priori quelli religiosi e quindi prevedendo, se del caso, una temporanea sospensione degli effetti del Concordato, da definire con la S. Sede. E’ infatti importante trattare gli spazi di festa collettiva non solo come occasioni di riposo o di svago, ma come espressione di una sensibilità comune verso temi, figure eventi della tradizione, laica o religiosa che sia. Di qui l’esigenza di un ragionamento intellettualmente onesto, che non sia solo l’esito involontario dello zelo di qualche anonimo tecnico economico ministeriale.

Non si può, del resto, non rilevare come – sul piano politico-istituzionale – lo spostare alla domenica successiva la celebrazione della sconfitta del fascismo, della nascita della Repubblica e di quel lavoro che la Costituzione pone a fondamento dell'Italia costituisca, di fatto, la negazione di quel patriottismo costituzionale e di quella idea di democrazia sociale su cui si è costruita e sviluppata la miglior storia della nostra Repubblica.

Per queste ragioni lanciamo un appello, aperto a tutte le cittadine e i cittadini italiani/e, affinché il governo receda dai suoi propositi.


Roberto Balzani (Univ. di Bologna, Sindaco di Forlì), Thomas Casadei (Univ. di Modena e Reggio Emilia), Maurizio Ridolfi (Univ. della Tuscia, Viterbo), Sauro Mattarelli (Pres. Fondazione A. Oriani, Ravenna)

Per aderire: http://www.petizioni24.com/feste_civili

sabato 13 agosto 2011

Perché abolire soltanto le feste laiche?

Ora per risparmiare e per riparare ai danni fatti, leggo che si pensa di abolire alcune feste e solo quelle laiche: capodanno, il 25 aprile, il primo maggio ed il 2 giugno. Ovviamente tutte feste inutili mentre quelle "religiose" e concordatarie del 6 gennaio, Pasquetta, 15 agosto, 8 dicembre e 26 dicembre sono insopprimibili. Con un tratto di penna cancellano le nostre radici, le nostre fondamenta, la nostra storia... Dicono che la fanno per il nostro "bene", per eliminare gli sprechi, per camncellare il debito... dicono...






Adesso abbiamo superato il limite. 

ARZAK RHAPSODY


Arzak Rhapsody è cartone sperimentale del francese Moebius (Jean Giraud) composto da quattordici cortometraggi intrisi di misticismo e fantasy post-moderno. Le storie narrate sono quelle di Arzak, un guerriero solitario e taciturno, che si sposta a cavallo di una creatura simile ad uno pterodattilo nel Deserto B, un mondo parallelo popolato di strane creature, situato alle frontiere del sogno e di una realtà posta al di là del reale.


Arzak Rhapsody è quindi un prodotto che merita la visione, almeno per potersi immergere in avventure surreali ambientate in un mondo popolato da bizzarri e coloratissimi personaggi.

primo episodio


Vai al canale per vedere anche gli altri episodi: CarTone74

venerdì 12 agosto 2011

Roberto SAVIANO e il Tricolore

"Chi pensa di spaccare il nostro destino distrugge un grande sogno: vedere da Friuli a Calabria in un`unica lingua la possibilità di disegnare un destino diverso. Il Paese ha voglia di fare, vuole smettere di pensare che i più bravi arrivano ultimi ma pensare che arriveranno primi. Di fronte al fango e alle baggianate dei siti, rispondere a tutto questo non ci importa. Andiamo avanti: costruire questa Italia significa essere eredi dell`Italia, ho sangue del sud e del nord, ho antenati repubblicani e mazziniani. Quei giovani credevano che l`unità per un paese libero. Mi piacerebbe recitare questo giuramento della Giovine Italia".
Roberto Saviano

martedì 9 agosto 2011

Maurizio Maggiani: "Risorgimento senza memoria"



"Mi son fatto una passione, di rendere giustizia andando in giro per l'Italia a raccontare le gesta e l'epopea di due generazioni di giovani uomini e donne che nel cuore del XIX secolo hanno consumato le loro vite a un'idea: la rivoluzione per la giustizia e la libertà dei popoli". 

Il video di "Risorgimento senza memoria"
un intervento di Maggiani alla Fiera del Libro di Torino 2010


venerdì 5 agosto 2011

"Noi credevamo"
Un film sul Risorgimento tradito e l’Italia incompiuta

“Noi credevamo” di Mario Martone è un eccellente film, con validi attori, una bella fotografia, dialoghi di spessore e una scenografia accurata e perfetta nella ricostruzione ambientale. Una colonna sonora raffinata nelle scelte dei brani d’opera del diciannovesimo secolo, la cui esecuzione, affidata all’Orchestra della Rai diretta da Roberto Abbado, riesce a fare emergere  il carattere squisitamente ottocentesco delle scene, dandone giustamente un tocco melodrammatico.
Le vicende raccontante nel film ruotano attorno a tre ragazzi del sud (Domenico, Angelo e Salvatore) i quali scelgono di reagire alla dura repressione borbonica dei moti del 1828, che ha coinvolto le loro famiglie, affiliandosi alla Giovane Italia e giurando fedeltà agli ideali repubblicani e democratici di Mazzini. Attraverso quattro episodi, che li vedono a vario titolo coinvolti, vengono ripercorse alcune vicende del processo che ha portato all'Unità d'Italia. Si parte dal circolo dell’affascinante Cristina di Belgioioso a Parigi e dal fallito tentativo di uccidere Carlo Alberto, fino  all'insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questi episodi porteranno i tre amici a prendere strade diverse e a creare tra loro una frattura insanabile. Angelo si voterà all’azione violenta ed esemplare, accuserà Salvatore di essere un traditore della causa e parteciperà, in seguito, al tentativo di Felice Orsini di assassinare Napoleone III. Sarà, invece, con lo sguardo onesto e puro di Domenico che noi spettatori avremo l’occasione di conoscere un vero mazziniano, intransigente e coerente, di osservare l’evoluzione e il tradimento della lotta repubblicana e gli esiti di quel processo storico che chiamiamo Risorgimento.
Ma il film è anche un’opera di narrazione storica, un’operazione culturale, che ci offre una interessante rilettura del Risorgimento cercando di mostrare oggi come la mancata riuscita del sogno democratico di una patria repubblicana, quella italiana, sia la causa dei mali che affliggono in buona sostanza il nostro presente. Martone è interessato a rendere cinematografiche le sue tesi sul Risorgimento: il sogno dell'Italia repubblicana, libera e democratica, propugnato da pochi, volenterosi e appassionati giovani si è infranto contro la realtà di una Italia “gretta, superba e assassina”, realizzata per forza di cose da una monarchia che ha semplicemente sostituito un dominio, quello borbonico, con un altro, quello sabaudo. Quindi uno scontro fra repubblicani e democratici, fra un’anima democratica e una autoritaria, una prima "frattura" fra quelle che hanno segnato, e segnano tutt'ora, la storia italiana (Nord contro Sud; Nobili contro il popolo; laici contro clericali, etc.). 
Il regista mostra, attraverso la figura di Domenico, come la vera azione mazziniana, abbia preparato il terreno meridionale e lo spirito delle popolazioni all'impresa dei Mille. Questa azione, portata avanti da dei veri apostoli del sacrificio, noncuranti delle privazioni e delle torture, ha prodotto la Nazione Armata, il popolo in armi che, quando non imbrigliato dalle macchinazioni monarchiche, ha saputo produrre gli esempi più alti del nostro Risorgimento. In effetti la critica del regista è rivolta essenzialmente agli intellettuali che non hanno saputo condurre il popolo, dal momento che non erano capaci di comprenderlo e nemmeno avevano la volontà di farne parte. Ragionare oggi del Risorgimento è un'occasione per interrogarci sull'Italia e il disincanto degli italiani e la cinematografia diventa uno strumento prezioso anche per lo studio del nostro passato. Certo il Mazzini interpretato da Servillo, un uomo misterioso, visto nella sua presunta umanità e con toni volutamente antiretorici, resta sullo sfondo molto defilato e distante, e la scelta del regista degli aneddoti da raccontare e delle incongruenze (un Mazzini che sembra già vecchio durante i moti del 1834 quando era appena venticinquenne) ne fanno forse uno dei tratti meno riusciti del film. 
Raccontare il Risorgimento, tuttavia, attraverso i mezzi proposti dal cinema e dalla arti visive in genere comporta una riflessione sul presente, sulla società odierna. In effetti, l’opera cinematografica è sempre figlia della società che lo ha prodotto e porta con sé tutto il carico dei suoi valori. L’opera cinematografica è nondimeno anche figlia dello sguardo del regista, poiché le immagini con cui gioca non sono mai neutrali, ma sono sempre una visione di parte, una realtà filtrata e manipolata in funzione del messaggio che vuole lanciare agli spettatori. 
Il richiamo allegorico all’Italia di oggi avviene, infatti, attraverso alcune immagini, apparentemente fuori tempo, come ad esempio l’inquadratura dei piloni di cemento armato di una casa iniziata e mai finita sulla costa del sud, che richiama un’altra casa ancora da completare, “quella italiana”, contemporanea, mai così necessaria come adesso. È proprio questo il motivo principale che rende questo film un documento storico assolutamente necessario oggi per la comprensione del nostro passato.

Alessio Sfienti
tratto da "Il Senso della Repubblica", Anno IV n. 12 dicembre 2010

giovedì 4 agosto 2011

Selah Sue

L'album d'esordio di Selah Sue (nome d'arte scelto da Sanne Putseys, cantautrice 22enne originaria di Leefdaal, nel Belgio fiammingo) è composto da dodici brani in bilico tra folk, rock, reggae e sonorità soul-funk.

La sua è una voce di classe che non può passare inosservata e che si adatta ad un sound che si estende senza confini su territori inesplorati.

Un bel album, originale che rende omaggio anche a grandi artisti come Bob Marley, Lauryn Hill e Erykah Badu. Da ascoltare. 

www.selahsue.com


Ragamuffin

mercoledì 3 agosto 2011

Game Of Thrones

Una delle serie tv più belle e appassionanti degli ultimi anni:



In attesa della seconda stagione. 
Assolutamente da vedere

martedì 2 agosto 2011

Bon Iver, Bon Iver (2011)

Un piccolo gioiello, sussurato, che tocca nel profondo, in modo inquieto e accattivante.
Un album che disegna immagini al crepuscolo, che richiama la calma della sera e la bellezza della notte.

Bon Iver, Bon Iver

Track list

1.     "Perth"           
2.     "Minnesota, WI"       
3.     "Holocene"          
4.     "Towers"          
5.     "Michicant"          
6.     "Hinnom, TX"           
7.     "Wash."         
8.     "Calgary"          
9.     "Lisbon, OH"          
10.     "Beth/Rest"